Spazio pubblico non è terra di nessuno, ma è dove tutto ricomincia

Lo spazio pubblico nella transizione dal sospetto alla spensieratezza del convivio culturale

19-04-2020

2 storie 1 punto di partenza
In un recente intervento alla trasmissione Propaganda Live, Ezio Bosso ha condiviso un pensiero che restituisce in forma chiara la sintesi di tanti spunti, spesso caotici, che tra i movimenti dei lavoratori dello spettacolo in emergenza Covid-19 stanno emergendo attorno all’urgenza di ripensare l’equilibrio tra arte, cultura e il resto della società per un ritorno alla normalità. Ezio dice “...noi stiamo andando pericolosamente verso il principio che quello che stiamo facendo è normale. Che stare chiusi e lontani è normale. Invece è eccezionale. Non esiste la normalità, esiste la natura. E gli uomini hanno bisogno di stare vicini. E sono stati vicini anche dopo le altre grandi pandemie. Non c'è un futuro senza vicinanza, senza stare insieme. Uno dei nostri ruoli, il ruolo dell'arte, sarà quello di educare e con dolcezza accompagnare a quella che è la nostra natura. Non alla normalità.”

In poco più di 80 parole troviamo l’analisi precisa del presente e qual è il disegno per il futuro. Un invito a riflettere che il ritorno allo stato di natura implica il ripristino di una dimensione relazionale, affettiva ed emozionale. Questo processo di ricostruzione, dando forma anche a quel che i virologi anticipano, non potrà che partire dallo spazio pubblico.

Tantalo al balcone e la libertà ritratta
Su una cosa almeno saremo tutti d’accordo alla fine dell’emergenza. La cosa che più di ogni altra ci sarà mancata in questo periodo di quarantena, in questo tempo senza nome, sarà stata la libertà. Appena ne avremo la possibilità ci sarà la voglia e il bisogno di uscire, di ritornare a vivere la strada, la piazza, lo spazio pubblico. E questa cosa non sfugge agli operatori della cultura. Nel dibattito in corso la domanda ricorrente è quella di come ricostruire il rapporto col pubblico: sarà difficile, sarà diverso, ci sarà diffidenza, avremo timore del contatto, della vicinanza, ci sarà paura degli spazi chiusi diversi dalle nostre case?

Se in questo passaggio storico che diventa, senza possibilità di appello, una transizione da un mondo che non c’è più verso un mondo che è tutto da immaginare, la prima celebrazione che ci attende comincerà appunto da un luogo preciso da cui ripartirà tutto. Questa lunga riflessione clausurale rigeneratrice di ruoli, sviluppata nel chiuso dell’universo domestico o telematico, dovrà a un certo punto uscire a confrontarsi con il fare. E il primo fare sarà necessariamente nel fuori, nello spazio pubblico della relazione fisica condivisa. È nello spazio pubblico che metteremo a bilancia la tensione alla fisicità affettiva con il timore indotto di varcare la soglia del distanziamento. È a partire dallo spazio fuori che misureremo la capacità della cultura di ridefinire il suo ruolo di generatrice di comunità e il ruolo degli operatori culturali di essere veicolo di coesione.

Facta sunt servanda
Ne è riprova il fatto che nei tanti dibattiti online, quasi tutti gli operatori culturali dei settori tipicamente indoor (teatri, cinema, musei, istituti culturali, biblioteche etc.), stanno giustamente cercando di anticipare soluzioni, ben consapevoli che gli spazi dentro della cultura saranno gli ultimi ad essere sdoganati.

La sperimentazione di modelli differenti, per prepararsi al ritorno a una normalità diversa da prima, dovrà andare alla prova dell’azione. Testare la tenuta di questo spazio fuori. E dal fuori tornare poi dentro, immaginando un nuovo modo di essere dentro, incontrarsi dentro, agire dentro. Ma siamo sicuri di sapere cosa ci attende nel fuori?

Spazio pubblico come Zona Franca della cultura
Nel dibattito in corso lo spazio pubblico assomiglia sempre di più, concettualmente, a quell’ipotesi di Zone Franche per la Cultura previste dalla bozza del DL Cultura e Turismo. È forse così che è possibile davvero introdurre, in questo particolare momento storico, l’urgenza di ragionare sulla cultura creando aree che siano da un lato presidi di ascolto del territorio e amplificazione degli effetti degli investimenti sul settore, ma dall’altro anche aree salve, franche appunto, in cui gli operatori culturali imparino a mantenere l’attuale dialogo continuo, paritario ed intersettoriale che l’ansia di distinguo narcisistico ci ha impedito di fortificare prima, lasciandoci a natiche all'aria di fronte all’arrivo dell’imprevedibile.

Allora sì, siamo convinti eccome che lo spazio pubblico sarà la prossima sperimentale zona franca di dialogo culturale. Qui possiamo costruire insieme un nuovo alfabeto verso una cultura accessibile. Ma non possiamo dimenticare che questo luogo è già portatore di saperi e di prassi avanzate che, a questo punto, devono emergere.

Gli ultimi saranno i primi?
Lo spazio pubblico  non è infatti uno spazio vuoto e tantomeno neutro. È uno spazio abitato, uno spazio transitato, un territorio che è già portatore di un sapere innovativo. È lo spazio di chi ha scelto, come territorio di intreccio della propria arte, il fuori. Qui ci stanno orgogliosamente gli “ultimi”: noi. Noi che amiamo lo spazio pubblico e che lo abbiamo abitato come scelta, noi che abbiamo raccolto le briciole degli investimenti alla cultura, noi che mentre il grosso dell'attenzione economica si rivolgeva altrove abbiamo coltivato un sapere che in questo passaggio storico si può rivelare in grado di dare linfa a tutto il comparto. E aperti e inclusivi, come sempre siamo stati, invitiamo eccome ad abitare questo spazio con nuove idee. Siete i benvenuti, ma non possiamo fare a meno di mettere in guardia da errori, inesperienze e frettolose soluzioni.

Quel che ti nutre ti uccide
Così come gli artisti, in strada, hanno imparato che lo spazio pubblico tanto ti dà quanto ti toglie, non possiamo non guardare con un certo terrore a questo affanno con cui gli indoor si operano a immaginare il loro vestito da passeggio. Esistono dei rischi nello spazio pubblico, ben precisi.

Il primo è il linguaggio, perché fuori non si parla come dentro. Si corre il rischio di non essere capiti né apprezzati. Se va bene si può pure essere tollerati, ma questo non significa che avremo portato cultura alla gente e la gente alla cultura. Mentre è di questo che stiamo parlando.

Il secondo è il rischio di saturazione della presenza e della proposta. Lo spazio pubblico è pieno soprattutto di quotidiano. L’azione artistica investe gli spazi interstiziali del quotidiano (spesso molto ampi), ma fa i conti con tutto quello che ordinariamente già esiste. Troppa proposta nel medesimo contenitore può generare conflitti, pur con le migliori intenzioni.

Il terzo, il peggiore, è la devalorizzazione della proposta culturale (un po’ come nello streaming). Arte e cultura sono beni necessari e pregiati, perché agiscono sul sensibile, ma devono essere accessibili a tutti, democratici. Già oggi, in strada, si accede a questi a prezzi molto popolari. A volte gratis. Se per varcare la soglia di uno spazio indoor pare più facile considerare il prezzo di un biglietto, nello spazio pubblico la dinamica del riconoscimento di valore ha altre vie e richiede una costante formazione del pubblico.

Il quarto è la burocratizzazione dell’accesso in strada. Esempio è la normativa sulla sicurezza. L’emergenza virale porterà nuove norme che, restringeranno gli spazi, e renderanno ancora più complessa la partecipazione pubblica alla proposta culturale. In questo momento è di fondamentale importanza garantire la partecipazione attiva, nella riscrittura alle nuove norme, ai portatori di esperienza. Ossia chi, nello spazio pubblico, da anni ha a che fare con queste tematiche.

Non tutto il male vien per nuocere
Siamo sempre stati convinti che tutti gli artisti dovrebbero, per la loro formazione personale, transitare per lo spazio pubblico, abbastanza a lungo da impararne la lezione. Non possiamo quindi non considerare che questo drammatico passaggio, a cui tutti cerchiamo soluzioni, è anche campo di sperimentazione importante e un’occasione da non perdere.

È possibile stracciare, finalmente e definitivamente, l’inutile demarcazione tra arte “lirica” e arte popolare, perché in termini professionali e di persone che ci lavorano, parliamo ugualmente di artisti e lavoratori dello spettacolo.

Possiamo superare il concetto di pubblico/spettatore e aprirci a quello di comunità/persone. Chi vive lo spazio pubblico non ha spettatori di fronte al suo spettacolo. Ha persone e il dialogo prima, durante e dopo è un veicolo potente di educazione al territorio, alla socialità, alla partecipazione attiva, alla sostenibilità, all’ambiente.

Ci è dato modo di misurare quale sia l’effettiva urgenza di cultura, di imparare a superare un’atavica autoreferenzialità, e poi di prendere il posto che meritiamo, senza attendere l’invito a tavola.

Abbiamo l’occasione di riscoprire la necessità di un’etica, ma che sia vera, riscrivendo l’equilibrio tra professionismo e amatorialità, tra settori culturali, tra colleghi di comparto, tra artisti e spettatori, tra committenti e compagnie, tra artisti e spazio abitato.

Possiamo sdoganare un nuovo linguaggio, svecchiando la retorica di chi parla d’arte, spettacolo e cultura senza produrla direttamente. Esistono già parole nuove che ci descrivono, che sono comprensibili non solo dagli addetti ai lavori, che permettono di riscrivere il nostro ruolo tra le fattispecie giuslavoristiche, nel linguaggio del confronto tra parti sociali, nella comunicazione al resto del mondo.

È una grande possibilità di restituire la dignità allo spazio pubblico e agli artisti che lo animano, riconoscendo anche qui il valore della presenza associando termini quali contemporaneità, sperimentazione e ricerca a quelli di tradizione, popolarità e folclore.

C’è infine la grande possibilità di ripensare totalmente la fruizione della cultura, sperimentando il modo di riportare la gente a teatro e nelle altre case della cultura, imparando che, per farlo, bisogna loro indicare la strada per poterci rientrare.

Prospettive o cul de sac?
Ci sono tre grossi problemi che rischiano di portare all’estinzione le energie positive liberate da questa emergenza, nonostante la vitalità creativa che le trasporta.

Il protagonismo dei rappresentanti di categoria o di interessi: cosa che già si intravvede laddove, rispetto ai parziali risultati conseguiti nelle trattative col governo, derivanti dal fuoco diffuso di tanti interlocutori, assistiamo alla corsa a chi si intesta il merito. Prima di rappresentare il cambiamento occorre sforzarsi per comprenderlo, il cambiamento.

L’ottusità dei decisori politici, qualora non comprendano che proprio ora aprire alla partecipazione di “chi fa” nella riscrittura normativa del settore non significa l'assalto alla diligenza (ci interessa la dignità, non l’assistenza), ma poter definire equilibri contrattuali virtuosi e innovativi, in grado anche di dare risposte ad altri comparti in cui l’innovazione delle figure lavorative rende l’atipicità una norma.

La disomogeneità del comparto che può produrre delusione, confusione, non riconoscimento, dispersione o, peggio ancora, autoesclusione, mentre non dovremmo mai dimenticare che il caos, chez nous, è un differente ordine che ci guida nella riemersione da questo transito.

Se però apriamo lo sguardo lontano e impariamo a guardare per vedere, la prospettiva è inevitabilmente quella di coinvolgere da subito tutte le componenti artistiche nella lettura di passato e presente, per permettere di riscrivere insieme una nuova letteratura della cultura e dei suoi equilibri. Ma coinvolgendo artisti e operatori da subito, nel processo di scrittura, non alla fine coi giochi fatti. Non bisognerebbe mai dimenticare che la cultura, unica eccezione alla termodinamica, è capace di fare un doppio lavoro con la medesima forza e al minimo del costo. Dal punto di vista sensibile è fondamentale componente di benessere, dal punto di vista tangibile è ben più che una componente economica. Come ha ricordato Ezio Bosso, è una componente produttiva. Ma Il vigore e la vitalità dell'arte e della cultura dipendono dal benessere degli artisti in quanto individui e in quanto collettività. E questo lo dice la raccomandazione 99 della commissione cultura del Parlamento Europeo.

Il messaggio che riteniamo elementare, e che purtroppo va ribadito, è che dobbiamo dunque smettere di parlare di quanto costa la cultura. Usiamo le parole giuste. Parliamo di quale costo sociale enorme avrebbe l’assenza di proposta artistica e culturale se dovessimo farci fronte con altri mezzi. Se discutiamo dunque sul come ricominciare, non si può prescindere dal ridare valore al ruolo sociale dell’artista. E, paradossalmente, per trovare le soluzioni per tutto il comparto dovremmo ricominciare a ritroso, dai più piccoli e, prima ancora, dagli invisibili alle cattedre e alle statistiche numeriche. Da tutto il sommerso che è valore aggiunto che si disperde. Iniziare dunque da coloro che tutti i giorni, nello spazio pubblico, cittadini tra cittadini, professionisti tra professionisti, svolgono la loro funzione sociale senza pretendere assistenza, ma dignità. Questo sì. Esattamente come chiedono, e noi con loro, tutte le componenti emerse dei lavoratori dello spettacolo.

Che cos’è lo spazio pubblico
In strada non ci sono braccioli tra le persone, come in teatro tra le poltrone. In questo preciso momento gli artisti e il lavoratori dello spettacolo di strada si ritrovano portatori di esperienze e competenze che i settori indoor non hanno affinato allo stesso modo. A chi manifesta l’urgenza di uscire fuori generando proposte possibili per ridare fiato alla cultura, chiediamo di non dimenticare che lì fuori ci sono, e ci sono sempre stati, professionisti che conoscono il fuori e le sue dinamiche benissimo e che possono aiutarvi a trovare soluzioni per arrivare davvero dove si vorrebbe. Esiste un sapere che spesso non è mai stato considerato alto, rispetto ai luoghi tradizionali, ma che è invece altissimo rispetto alla relazione. A questi artisti, a questi lavoratori, a questi professionisti è forse ora importante rivolgersi per un confronto sulle pratiche. È il momento del pragmatismo. È alla gente che bisogna parlare, per riportarli a casa, riportarli insieme, a ritrovarsi. Questi artisti non parlano ai critici né alle elite. Parlano alle famiglie, agli operai, ai commercianti, ai senzatetto, ai preti, ai tossici, ai vecchi, ai politici, agli immigrati, alle proloco, alle associazioni, ai volontari, ai passanti. Tutto questo è il loro pubblico. Questi sono i loro committenti. Perché questi artisti fanno una cosa semplice: parlano alla gente.

Nella griglia di intellettuali, che oggi servono parole all’inchiostro degli appelli, gli artisti che agiscono nello spazio pubblico sanno bene che non possiamo prescindere da un linguaggio che sia alla portata della gente. È a loro che dobbiamo parlare, non scrivere belle parole per i manuali del contemporaneo. E attraverso loro parlare a chi deve fare la politica.
Se vogliamo davvero dunque riscrivere un ruolo dell’arte e dell’artista in relazione alla costruzione del benessere sociale ora non è tempo di mettersi la camicia bella e la cravatta della domenica, per bussare alla porta del re. È tempo di tirare su i calzoni e attraversare la distanza che separa la gente in questa melmosa emergenza per ricominciare da dove ci eravamo fermati. Dalla relazione. Dalle relazioni. Perché questo è lo spazio pubblico. E se gli artisti vogliono, per primi, assumersi la responsabilità di un ruolo fondamentale nella ricostruzione di questo dopoguerra, è della gente che abbiamo bisogno ora. Solo così, insieme a questa gente, possiamo riscrivere la letteratura de “di cultura non si mangia”. Di cultura si mangia e fa bene alla salute. Di tutti.

Giuseppe Boron, Mario Barnaba, Alessandra Lanciotti, Boris Vecchio, Federico Toso

 

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